
«La poesia per me è come un conato. È vomitare qualcosa che non riesco a digerire.»
(Licia Missori)
E' stato appena pubblicato Dolce notte tossica [La storia di quando sono morta], il libro di poesie di Licia Missori. Si tratta di un’opera forte, diretta, romantica fino all’estremo. Una raccolta di poesie scritte tra il 2003 e il 2008, sempre e invariabilmente a notte fonda, lontano dalla luce, dai rumori, dai doveri. Molte di queste poesie hanno vinto concorsi o ricevuto altri riconoscimenti in Italia.
In apertura al libro, una citazione di Guy de Maupassant: «Quello che amiamo con violenza finisce sempre coll’ucciderci». Ed è proprio così: Musa, Veleno e Morte sono le tre parti che formano l’oscurità di questa lunga notte. La libertà tiene prigionieri (Ogni notte è più tardi), la bellezza e la nostalgia si inseguono senza riuscire a prendersi (Distance from the beauty), le emozioni più delicate (Piccolo cuore infranto) si alternano ad un’autopercezione lapidaria:
«Sono una parte della stanza
Come i mobili e le pareti
– Io sono il buio.»
(Nuda)
Fino alla violenza estrema di Rave («il sangue cola a terra a fiumi/e l’amore si raccoglie a grumi»), il tradimento di sette uomini diversi che in realtà sono sempre lo stesso (Lily G. veste sempre in nero) e una canzone «per dirti che t’odio/come forse mai più t’amerò un domani»:
«Glorifichiamo le leggi del mondo!
Gesù è sulla croce
in una pioggia di applausi
Laviamoci le mani
Con la morte
Sullo sfondo.»
(La sete)
A pag. 74 incontriamo l’unica figura amata positiva, la dolce Lisa dark che insegna letteratura «tra le aule affollate, affollate!»:
«La vidi un giorno vestita di tenebre
camminare a piedi nudi
per i corridoi bianchi dell’università,
guardai quel viso gentile
e una luce mi trafisse dai suoi occhi neri.»
(Canto d’amore per la mia Lisa Dark)
E poco dopo la metà del libro troviamo gli ultimi istanti di luce, gli ultimi respiri profondi all’aria aperta («Il mio mondo è un prato irlandese/su cui danzano nuvole e vento»), prima che la mente si chiuda in se stessa a contemplare la sua distruzione (finisce la prima parte, Musa, e inizia Veleno).
«Qualcuno ti sta distruggendo
la mente,
qualcuno che mente
- E come possono gli altri chiederti
sul serio
di credere ancora?
No! La sola felicità
che riesci a concepire ora
è ballare per sempre su un cubo
un pezzo dei Chemical Brothers.»
(Caduta)
Da qui in poi è come cadere in un precipizio («Mi siedo a terra […]/abbracciando disperatamente/un vuoto»). L’amore perduto assume le forme di una crisi d’astinenza, la mancanza dell’amante è la privazione di una droga dell’identità, di quella presenza tossica che fa vivere male, ma almeno fa vivere. Quando anche il Veleno finisce, finisce la vita. Tutto va in frantumi. Entriamo nell’ultima parte, Morte. Le poesie stesse diventano frantumi, minuscoli e taglienti («Sono finita/proprio mentre stavo cominciando», End, oppure «La vita mi fa schifo/da quando non ti amo più», Reject). Molte pagine restano quasi totalmente bianche. Poche parole, seguite da grandi spazi vuoti che parlano del Nulla.
Un viaggio verso il baratro, costellato di tappe intense, di luoghi speciali (Dublino, Verona), di personaggi (Jennifer, Ramona, Lisa Dark, Shocking Mary, il Principe, la gatta nera e «questa malattia che si chiama Marco») che popolano questo mondo prima della sua fine.
Ma a volte è necessario distruggere per poter ricostruire da capo. A volte è necessario cadere e farsi male per rialzarsi e imparare a camminare da soli. Per questo, in fondo, Dolce notte tossica è un viaggio verso una possibile felicità futura. Commovente quando a parlare non è più la donna, ma la bimba (pag. 95). La immaginiamo rannicchiata in un angolo buio, impaurita, in compagnia soltanto del suo orsacchiotto di peluche, mentre ci guarda dritto negli occhi e ci dice con una tenerezza agghiacciante:
«Prima di morire
vorrei soltanto
un abbraccio caldo.»
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